Kazakhstan: le radici della rivolta

L’insurrezione di gennaio in Kazakhstan, e in particolare ad Almaty, è stato l’evento più rilevante a memoria della maggior parte dei kazaki. Il presidente Kasym-Jomart Tokayev, nel suo intervento alla sessione straordinaria del Csto (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), l’ha definita “la peggior crisi del trentennio dell’indipendenza”. Mai prima d’ora il regime borghese del Kazakhstan moderno si era trovato alle prese con una tale minaccia.

[Source]

In pochi giorni tutto il Paese è stato travolto da proteste di portata veramente rivoluzionaria e – soprattutto – a livello nazionale. Ciò ha fatto tremare il terreno sotto i piedi di entrambi i “presidenti”, i loro oligarchi e i loro cani da guardia. Sì, questo potente movimento è stato annegato nel sangue (per ora), ma per farlo c’è stato bisogno dell’intervento di forze straniere.

Il predecessore del presidente in carica si era fregiato del vergognoso appellativo di “macellaio di Jañaözen”. Il suo successore dovrà essere conosciuto d’ora in avanti con il titolo che gli spetta: “macellaio della Repubblica”. Il Kazakhstan non sarà mai più lo stesso. Con i fatti del 2011 a Jañaözen, le “manifestazioni per la terra” del 2016 e le proteste del 2019, gli eventi del gennaio di quest’anno rappresentano una nuova fase nell’eruzione delle contraddizioni fondamentali del Kazakhstan e del capitalismo mondiale. Questi eventi stanno via via preparando il terreno per lo sviluppo di un movimento organizzato di massa, che farà finalmente a pezzi tutto il marciume capitalista ed edificherà una nuova società sulle sue rovine.

Cronaca dell’insurrezione

Le proteste di massa contro gli aumenti dei prezzi del carburante in Kazakhstan hanno avuto inizio nell’ovest de Paese, nella regione di Mangghystau, dopo l’annuncio della liberalizzazione dei prezzi del gas liquido (Gpl). Questa misura ha portato a un’impennata dei prezzi da 50-60 tenge (la valuta kazaka) al litro a 120 tenge o più. In questa regione petrolifera il Gpl viene usato come carburante per i veicoli, nonché per la cucina e il riscaldamento. Il 2 gennaio gli abitanti di Jañaözen – città con una ricca tradizione operaia e sindacale – sono scesi in piazza contro l’aumento dei prezzi. Quello stesso giorno le proteste si sono espanse a macchia d’olio in tutta la regione, compresa Atyrau, il capoluogo amministrativo, dove i manifestanti hanno occupato la piazza centrale con tende e yurte.

Il 3 gennaio sono cominciati gli scioperi ai giacimenti petroliferi. Per fermare la diffusione della protesta i manager delle compagnie petrolifere hanno negato agli operai i mezzi di trasporto per tornare a casa, costringendoli a camminare per decine di chilometri nel deserto congelato. Gli operai chiedevano un aumento del 100% dei salari, oltre a migliori condizioni di lavoro. In aggiunta alla piattaforma economica avevano anche rivendicazioni politiche, soprattutto per la legalizzazione dei partiti politici e dei sindacati indipendenti. In tutto il Paese hanno cominciato a formarsi picchetti di solidarietà con le proteste di Mangghystau. La mattina successiva lo sciopero della regione di Mangghystau si era ormai generalizzato e vedeva anche l’adesione dei lavoratori dell’azienda petrolifera Tengizchevroil della regione di Atyrau.

La dice lunga il fatto che, in un primo momento, il ministro responsabile aveva detto, peraltro correttamente, che non sono l’amministrazione locale né il governo a stabilire i prezzi, e che il loro aumento è stato dovuto alle forze del mercato. Ma poi il governo è tornato su suoi passi annunciando che avrebbe regolato i prezzi del Gpl e chiesto ai proprietari dei distributori di benzina di valutarne un riaggiustamento. Questi ultimi, dopo un accordo con il governo, hanno acconsentito di ridurre temporaneamente i prezzi a 85-90 tenge al litro – tenendoli comunque ben più alti dei 50 tenge chiesti dai manifestanti.

Le concessioni minime del governo non hanno sortito l’effetto desiderato. Il 4 gennaio le proteste si sono allargate a tutto il Paese. Nelle zone industriali della regione di Karaganda, Kazakhstan centrale, hanno proclamato lo sciopero i minatori di AcelorMittal Temirtau e i metalmeccanici e minatori dell’azienda Kazakhmys. Gli operai della fabbrica di macchinari di Karaganda, che comprende anche una fonderia, hanno raccolto la rivendicazione dei lavoratori del settore del petrolio di un aumento dei salari del 100%, aumento delle ferie pagate, mensa gratuita e più benefit salariali e pensionistici per chi lavora in condizioni pericolose. Gli scioperanti chiedevano inoltre le dimissioni del direttore dello stabilimento.

Le principali piazze di quasi tutti i capoluoghi regionali sono state invase da centinaia e poi decine di migliaia di persone. Si trattava di cittadini che volevano esprimere solidarietà con Jañaözen: ben presto, uniti da un malcontento comune verso la gestione del Paese, hanno cominciato a formulare collettivamente la propria piattaforma. Molti erano ispirati dalle rivendicazioni avanzate a Mangghystau, cioè sia economiche (un freno all’inflazione e all’aumento dei prezzi, salari più alti, condono sui prestiti) che politiche (riforme democratiche, dimissioni del governo e del presidente, sciogliere il parlamento, nuove elezioni, rilascio dei prigionieri politici).

Per la maggioranza dei partecipanti si è trattato della prima esperienza di lotta politica; ma la pratica è un’ottima maestra, come prova il fatto che si è potuto amalgamare con tanta rapidità un programma così lucido, sano, sociale e democratico. I manifestanti hanno dimostrato non solo grande consapevolezza e disciplina, respingendo attivamente le provocazioni degli infiltrati della polizia, ma anche un’ammirevole determinazione ad andare fino in fondo, respingendo le giustificazioni dei burocrati in preda al panico e rifiutandosi di lasciare le piazze.

La sera del 4 gennaio nelle strade di Jañaözen e Aktau si erano ormai radunate decine di migliaia di persone, ma a quel punto l’intensità degli eventi aveva toccato il picco ad Almaty. Nei primi giorni della protesta, la polizia di Almaty e della capitale era riuscita a mettere in campo una serie di azioni preventive: le piazze erano state sigillate, internet era stato bloccato nei centri cittadini e molti attivisti erano stati arrestati appena messo piede fuori casa. Tuttavia, nel pomeriggio del 4 gennaio le piazze di Almaty – in particolare piazza della Repubblica, dove si trova l’amministrazione cittadina – avevano cominciato a riempirsi di folle di manifestanti.

Il fattore decisivo è stato l’entrata in scena degli operai e dei giovani delle periferie e delle aree suburbane di Almaty, che sono andati ad aggiungersi ai settori già normalmente politicizzati della capitale. Il loro principale punto di raduno era lo stadio di Almaty Arena, nell’ovest della città, dove si concentrano le zone più povere della capitale meridionale, spesso paragonate ai ghetti o alle favela sudamericane. Una folla di decine di migliaia di persone si è quindi messa in marcia verso piazza della Repubblica, allargandosi man mano che conquistava nuovi partecipanti lungo il suo percorso di un’ora e mezza.

Gli scontri sono stati provocati dalla polizia di Almaty. Analoghe scene di violenza hanno sconvolto altre città del Paese per giorni. Le forze di sicurezza hanno accolto il fiume umano che si dirigeva verso la piazza a suon di manganellate, granate stordenti e lacrimogeni. Le stesse armi sono state poi usate contro i manifestanti nella piazza dove si trovano gli edifici governativi. Ben presto sono stati impiegati anche proiettili di gomma. Contro lo Stato, che aveva dichiarato guerra ai suoi stessi cittadini, si è scatenata la resistenza, che si è presto trasformata in una controffensiva. Per giorni la città è stata squarciata dalle esplosioni e dagli spari. Il centro storico di Almaty era avvolto nell’odore acre dei lacrimogeni e la piazza era illuminata a giorno da veicoli della polizia in fiamme e dall’incendio appiccato al principale palazzo amministrativo dai ribelli furiosi che erano riusciti a farvi irruzione.

Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio era ormai chiaro che la polizia e la Guardia nazionale non sarebbero state capaci di reprimere le proteste. Molti membri delle forze di sicurezza erano stati picchiati e disarmati. Sentendo il terreno mancargli sotto i piedi, Tokayev annunciava la rimozione del governo e dichiarava lo stato d’emergenza e il coprifuoco, prima ad Almaty e nella regione di Mangghystau, poi in tutto il Paese. Tanto le concessioni quanto l’indurirsi della repressione erano inutili per salvare il regime. Nella tarda serata del 4 gennaio tutto il Paese sapeva della carneficina ad Almaty. In tutte le città, a diversi livelli, scoppiavano scontri di massa con le forze di polizia (con uso di armi da fuoco da entrambe le parti) e attacchi contro gli edifici amministrativi (centrali di polizia, amministrazioni locali, uffici del partito al governo).

Il 5, 6 e 7 gennaio hanno visto il proseguimento degli scontri tra polizia e manifestanti ad Almaty, così come in numerose altre città del sud e dell’est Kazakhstan, fra cui Kyzylorda, Taraz, Shymkent, Aktobe e Taldykorgan, dove i ribelli sono anche riusciti ad abbattere una gigantesca statua di Nazarbaev. Il 5 e il 6 gennaio la polizia e la Guardia nazionale hanno tenuto un atteggiamento passivo: era chiaro che avevano ceduto l’iniziativa nelle strade ai manifestanti. In quei giorni, ad Almaty, la polizia era sparita da gran parte delle strade della città. In altre città alcuni membri delle forze dell’ordine si rifiutavano di obbedire agli ordini di reprimere le proteste e si sono verificati casi di fraternizzazione. Il Knb (Comitato per la sicurezza nazionale, i servizi segreti) si era chiaramente astenuto da ogni partecipazione agli scontri; tutto lasciava pensare a una decisione presa consapevolmente dai suoi vertici, anche se non certo per solidarietà verso le proteste!

Benché la rivolta iniziale era stata repressa con successo nella capitale, il 5 gennaio sembrava che la fine del regime fosse imminente e che la conquista quasi totale di Almaty da parte dei ribelli fosse il preludio del rovesciamento dell’intero governo. Con un messaggio televisivo, il presidente Tokaev, senza dare alcuna spiegazione, si è proclamato presidente del Consiglio di sicurezza: un posto garantito a vita a Nazarbaev!

Tokaev ha quindi scatenato una brutale repressione della protesta, etichettando i partecipanti come “cospiratori prezzolati”. Le strade erano però ancora sotto il totale controllo dei ribelli. Quel poco delle forze di sicurezza rimasto ancora affidabile era concentrato al quartier generale della polizia, sotto assedio, e alla residenza presidenziale di Almaty. A differenza delle altre città, ad Almaty si sono verificati casi relativamente diffusi di saccheggio, il che ha spaventato i più abbienti e i moralisti liberali, precipitatisi ovviamente a difendere la proprietà privata, le vetrine dei commercianti del centro e i negozi di elettronica, prendendo le distanze dai “selvaggi” e dalla “marmaglia”.

Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, dopo aver tolto il blackout internet per poche ore, il governo ha annunciato la decisione di convocare i “peacekeeper” del Csto – per la maggior parte soldati russi. A quel punto la retorica del governo contro le proteste si è inasprita: i ribelli erano ora terroristi e stava per cominciare una “operazione antiterrorismo”. Tokaev ha potuto reprimere la resistenza delle masse solo schierando ad Almaty soldati provenienti da altre regioni, e dopo che il contingente del Csto aveva messo in sicurezza diversi punti strategici. Un punto di svolta nei drammatici eventi rivoluzionari è avvenuto quando è stato aperto il fuoco su diverse centinaia di manifestanti pacifici che erano rimasti in piazza della Repubblica la sera del 6 gennaio. Nei giorni successivi, ad Almaty e nella regione circostante, si sono verificati scontri e sparatorie di minore portata, ma la gente ha via via lasciato le strade e le piazze, chi per tornare a casa e chi per darsi alla macchia. Centinaia di civili sono stati uccisi (non si conosce ancora il numero esatto).

Sin dal primo momento il regime ha cercato di presentare i ribelli come “terroristi stranieri”, o, nel migliore dei casi, burattini di una specie di complotto. La logica burocratico-poliziesca dello Stato è solitamente incapace di comprendere fatti come questi in modo diverso. Certo, la classe dominante kazaka è divisa. Nel momento in cui le masse sono entrate sulla scena, alcuni individui e gruppi della classe dominante hanno visto nel movimento un’occasione per promuovere i propri interessi.

Ma ridurre tutto ai giochi di potere tra le fazioni della classe dominante – come hanno fatto i media – significa ignorare che la forza motrice degli eventi è stata il movimento di piazza delle masse. I vari “esperti” e osservatori politici stanno cercando di sviare la discussione sulla natura sociale delle proteste proprio per concentrarsi solo sugli intrighi di palazzo e sulle dispute di fazione all’interno dell’élite, riducendo le masse a un ruolo insignificante.

Questa visione della storia che vede solo le manovre degli individui, o peggio un complotto di congiurati che agiscono nell’ombra manipolando le masse come dei burattinai, sono del tutto inutili per spiegare questi eventi rivoluzionari. Ci serve un’analisi materialista che tratteggi le radici del processo in pieno svolgimento: radici che si trovano nelle condizioni storiche e socio-economiche del Kazakhstan moderno.

Storia del Kazakhstan

Il Kazakhstan moderno si trova nella parte meridionale della regione nota come la “Grande Steppa”: una vasta striscia di praterie fra la taiga siberiana e i deserti centrasiatici. Per secoli le tribù turche hanno attraversato quest’area durante le loro migrazioni annuali verso nord, attraversando la steppa e la steppa boscosa in primavera e tornando al margine del deserto e alle pendici delle colline d’inverno.

In queste zone venne a formarsi il khanato kazako per effetto della disintegrazione dell’Orda d’Oro (un’armata tartara e mongola guidata dai discendenti di Genghis Khan) e del khanato uzbeko a metà del XV secolo. A nord, nella steppa boscosa, si ergeva il khanato siberiano; a sud, oltre il deserto e le montagne, il khanato di Bukhara, contro i quali i kazaki combatterono infinite e sfiancanti guerre durante i secoli XVII e XVIII. Attorno allo stesso periodo vennero a formarsi tre grandi leghe di clan kazaki: lo Zhuz Anziano, lo Zhuz di Mezzo e il Giovane Zhuz, rispettivamente a sudest, nordest e ovest del Kazakhstan.

Nel frattempo, a metà del XVI secolo, lo zar Ivan IV il Terribile – dopo un periodo di guerre – annetté i khanati di Kazan e Astrakhan al Granducato di Mosca. Al termine del secolo, dopo la campagna di Ermak (dal nome di Ermak Timofeevič, l’ataman – o comandante militare – cosacco che capitanò la conquista russa della Siberia), cadde anche il khanato siberiano ed ebbe inizio la colonizzazione russa della Siberia.

Usando tipiche tattiche colonizzatrici russe, a metà del XVIII secolo il governo imperiale russo decise di edificare le linee di frontiera di Orenburg, Uysk e della Siberia, che consistevano in reti di fortificazioni e insediamenti cosacchi. Queste frontiere si spostarono gradualmente verso sud, cacciando i nomadi kazaki dai loro pascoli estivi. Una delle conseguenze della politica coloniale zarista fu il sostegno accordato dalla maggioranza delle tribù del Giovane Zhuz a una rivolta contadina diretta da Emel’jan Pugacev, ataman cosacco Yaik, nel 1773-1775.

A quel tempo i contadini russi e ucraini evitavano di insediarsi nelle aride steppe, considerate rischiose per l’agricoltura. Fu così che venne disegnato il confine settentrionale del Kazakhstan moderno. L’annessione definitiva del Kazakhstan nell’Impero russo avvenne in seguito alla guerra fra Russia e Kokand del 1850-1868, quando l’imperialismo russo si appropriò di gran parte delle regioni fertili e densamente popolate dell’Asia centrale: Bukhara e Khwarazm.

Le steppe kazake si ritrovarono dentro i confini dell’Impero, e, nonostante la feroce resistenza degli abitanti delle steppe, guidati anzitutto da Syzdyk Sultan, vi furono inglobate. Fece eccezione Zhetysu, nel sudest, le cui zone pedemontane godevano di pioggia sufficiente per un’agricoltura intensiva. La popolazione kirghiza e kazaka, che coltivata quelle terre, fu cacciata dai coloni migranti russi: prima cosacchi, poi contadini. Fu qui che nel 1854 venne fondata la fortezza di Verny. Dopo la rivoluzione sarebbe stata rinominata Alma-Ata (oggi Almaty).

La pagina più luminosa della lotta del popolo kazako contro lo zarismo fu scritta nel 1916, quando scoppiò una rivolta contro le requisizioni del bestiame e la mobilitazione dei kazaki per lavori legati alla Prima guerra mondiale. La rivolta fu particolarmente violenta a Semirechye (Zhetysu). A guidarla era Tokash Bokin, interprete del Dipartimento regionale per il ricollocamento di Semirechye, e in seguito uno degli organizzatori del potere sovietico e segretario del Consiglio militare-rivoluzionario dei soviet.

La rivolta travolse anche la regione di Turgai, dove fu guidata da Amangeldi Imanov, il quale inflisse numerose sconfitte alle truppe russe inviate per un’azione punitiva. La rivolta di Turgai durò dall’estate del 1916 alla conquista di Turgai stessa a fine 1917, quando venne instaurata l’autorità dei soviet. Come Tokash Bokin, Imanov venne assassinato nel 1918 da membri del partito Alash, i cadetti kazaki.

Gli anni Venti videro l’implementazione della politica nazionale di Lenin da parte del potere sovietico – un potere instaurato dalle lotte comuni dei contadini kazaki e degli operai russi contro i bianchi cosacchi e i nazionalisti borghesi del governo dell’Alash-Orda. Nel luglio del 1919 venne costituita la regione kirghiza (com’erano noti i kazakhi fino a metà degli anni Venti), poi Repubblica socialista sovietica autonoma (Rssa) kirghiza, con capitale Orenburg, quindi Kyzylorda. Nel 1925 venne convertita nella Rssa kazaka, con Alma-Ata come capitale (1927).

Anche se le autorità sovietiche seguirono una politica generale volta ad abituare i kazaki alla vita sedentaria – che avrebbe dovuto portare a un miglioramento della cultura e della qualità della vita –, si dovette considerare anche l’impossibilità di sfamare il bestiame nei pascoli invernali. La maggioranza dei kazaki erano seminomadi nel 1928. La politica di collettivizzazione di Stalin, eseguita da Filipp Goloshchokin, fu accompagnata dalla “sedentarizzazione”, cioè dall’imposizione ai kazaki dell’agricoltura collettiva sedentaria. Per la maggior parte, questa politica fu giustificata dalle difficoltà incontrate dal regime nel portare i nomadi sotto controllo. Nel 1930-31 l’esaurimento dei pascoli portò a un’ecatombe di bestiame. Nel 1933 non restavano più di 4 milioni di capi, rispetto ai 40 milioni precedenti.

Seguì la carestia. Secondo varie stime, morirono fra 1 milione e 1,75 milioni di persone – circa un terzo e un quarto della popolazione kazaka della repubblica. Inoltre, non meno di 1,38 milioni di persone emigrarono dalla repubblica, soprattutto in Cina. La parola Asharshylyk, che significa carestia, divenne proverbiale. Va puntualizzato che il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto se le riserve di Stato non avessero allocato 31,4 milioni di tonnellate di grano di aiuti alimentari per i nomadi dal settembre del 1932 al 1934.

Per decenni i nazionalisti borghesi hanno tentato di presentare l’Asharshylyk come un crimine preparato a tavolino dal regime di Stalin. In realtà, non c’è affermazione più azzeccata di quella di Boulez de la Merta: “Fu peggio di un crimine. Fu un errore”. Pianificando la collettivizzazione dei popoli nomadi, la burocrazia commise una serie di scivoloni che, data l’impossibilità per la base comunista di criticare le decisioni del centro, portarono a una terribile tragedia.

Al contempo nelle steppe desolate e nei semideserti del Kazakhstan vennero aperti svariati Gulag. Il primo fu il gigantesco Karlag, nei pressi di Karaganda, centro Kazakhstan, dove erano stati scoperti vasti depositi di carbone e minerale di ferro. Una delle sue sezioni era il più grande campo femminile dell’Urss, l’ALZhIR (Campo di Akmolinsk per le mogli dei traditori della patria). Vi venivano incarcerate le mogli dei rivoluzionari giustiziati – fra cui i dirigenti dell’Urss negli anni Venti (Bukharin, Krestinskij e molti altri) – insieme a quelle di componenti del governo in carica , compreso Kalinin, il capo ufficiale dell’Urss.

Il Kazakhstan fu sempre visto da Stalin come un luogo d’esilio, in primis per i membri dell’Opposizione di sinistra e, soprattutto, Lev Trotskij stesso, che trascorse tutto il 1928 in esilio ad Almaty. Successivamente vi furono esiliati i kulaki durante il periodo della collettivizzazione. Una volta scontata la pena, i prigionieri del Karlag, ai quali non spettava il diritto di lasciare il Kazakhstan, rimanevano. La più grande migrazione forzata verso l’Asia centrale avvenne però in conseguenza delle politiche etniche di Stalin. Cominciò nel 1937, quando la popolazione coreana venne espulsa dall’Estremo Oriente. Successivamente milioni di cittadini sovietici vennero cacciati dalle loro case e spostati in zone meno ospitali, prima di tutto in Kazakhstan, nel corso di dieci anni. Fra loro c’erano ceceni, ingusci, tartari della Crimea, finlandesi d’Ingria, ma soprattutto tedeschi.

Gran parte del quasi milione di russo-tedeschi viveva nella Repubblica autonoma dei tedeschi della regione del Volga quando quest’ultima venne soppressa nell’agosto 1941. A differenza di gran parte degli altri immigrati, i tedeschi, già esperti nella colticazione delle aride steppe della regione del Volga, cominciarono ad arare le terre nere del Kazakhstan. Questa esperienza convinse Krusciov ad avviare l’aratura di massa delle steppe del Kazakhstan settentrionale nel 1954: fu la campagna delle “terre vergini”. Un totale di almeno due milioni di russi e ucraini si trasferirono nelle terre vergini. Nel 1960 vi cresceva la metà di tutto il grano raccolto in Urss.

L’indipendenza

All’inizio della perestroika la Rss kazaka era l’unica repubblica sovietica la cui “nazionalità titolare” (il gruppo etnico dominante, ndt) era una minoranza etnica. Allora la popolazione della repubblica consisteva per il 40% di kazaki, il 40% di russi e il 6% di ucraini e tedeschi. Nell’Urss regnava una consuetudine informale: il primo segretario del comitato repubblicano del Pcus doveva appartenere alla nazionalità titolare di una certa repubblica, mentre il secondo segretario era russo o ucraino. Dopo essere salito al potere nel 1985, Gorbaciov iniziò immediatamente il suo “svecchiamento” dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Pcus, rimpiazzando i vecchi quadri coi suoi protetti.

Alla fine del 1986 arrivò il turno di Dinmukhamed Kunaev, capo del partito in Kazakhstan. Il primo candidato alla sua successione era il giovane presidente del Consiglio dei ministri della repubblica, Nursultan Nazarbaev, protetto da Kunaev. Con una mossa a sorpresa, Kunaev si oppose alla sua candidatura. Al posto di Nazarbaev propose il primo segretario del Comitato regionale di Uljanovsk, Gennady Kolbin, come candidato provvisorio. Questi non solo non aveva la minima conoscenza della lingua kazaka, ma non aveva nemmeno mai lavorato in Kazakhstan.

La decisione di Mosca mandò su tutte le furie non solo la burocrazia di partito locale, ma anche e soprattutto gli intellettuali e gli studenti kazaki, che protestarono chiedendo le dimissioni di Kolbin. Il 16-17 dicembre 1986 in piazza Breznev (oggi piazza della Repubblica) si tenne una manifestazione di migliaia di persone. Le organizzazioni del Partito comunista delle fabbriche più grandi della città formarono milizie operaie, un membro delle quali rimase ucciso negli scontri con i manifestanti. La manifestazione fu dispersa solo la sera del 18 dicembre, in gran parte da unità dell’esercito mandate dalla parte europea dell’Urss.

Questi fatti (noti come “Zheltoksan”, che in kazako significa “dicembre”) indubbiamente portarono Nazarbaev a raggiungere delle conclusioni che si sarebbero rivelate molto utili per tenersi stretto il potere per anni e anni. È degno di nota che nel febbraio 1986, al XVI Congresso del Partito comunista della Repubblica, Nazarbaev aveva criticato implicitamente Kunaev per nepotismo, spreco di fondi statali e fallimenti economici. Circa 35 anni dopo il suo successore gli avrebbe riservato un trattamento sorprendentemente analogo.

Divenuto capo del partito nel giugno 1989, Nazarbaev divenne poi presidente del Kazakhstan. A differenza di molti altri dirigenti della Repubblica fu sempre dalla parte di Gorbaciov, e in un modo o nell’altro si espresse per il mantenimento dell’Urss, come fecero i leader di altre repubbliche centrasiatiche. Al referendum di tutta l’Unione sulla questione del mantenimento dell’Urss, svoltosi nel marzo 1991, solo il 5,2% degli abitanti della repubblica votò contro. Si tratta di un quinto del numero di coloro che votarono per lo scioglimento della Rsfsr (Repubblica socialista federativa sovietica russa). La decisione di liquidare l’Urss da parte dei capi delle tre repubbliche slave, adottata nella foresta di Belovezha nel dicembre 1991, mise i dirigenti delle repubbliche centrasiatiche, ora indipendenti, in una posizione economica e politica molto difficile.

La prospettiva di creare uno Stato-nazione kazako sembrava particolarmente incerta. Il Paese era chiaramente diviso in linee etniche fra un nord “russo” (per la precisione russofono), dove si concentrava la gran parte dell’economia nazionale, e un sud kazako, il cui centro culturale e amministrativo era, ancora una volta, la capitale russofona, Almaty. La maggioranza della nomenclatura (i burocrati) del partito kazako venivano dai villaggi e fra loro regnavano nepotismo e corruzione. Per di più, la divisione del popolo kazako in tre Zhuz (le storiche unioni tribali) era e rimane non solo un elemento di auto-identificazione, ma anche un fattore determinante nella divisione in fazioni sulla base dei clan di appartenenza all’interno dell’élite.

Il Kazakhstan indipendente, come le altre repubbliche dell’ex Urss, inaugurò la sua storia in condizioni di collasso economico. L’interruzione dei rapporti economici, la mancanza di capitale circolante e la difficoltà di riconvertire l’industria della difesa a usi civili furono esacerbate dall’emigrazione di massa degli specialisti qualificati. Durante gli anni Novanta circa 100mila tedescofoni rimpatriarono in Germania ogni anno. Oltre 200mila russofoni all’anno se ne andavano in Russa. L’emigrazione della popolazione russofona fu causata in larga parte dal crollo delle industrie per la produzione di macchinari e dall’aumento della disoccupazione nei centri industriali. Il drenaggio demografico fu compensato in parte dal programma statale volto a rimpatriare circa un milione di kazaki – i cosiddetti “oralman” – da Uzbekistan, Mongolia, Turkmenistan, Cina, Russia e altri Paesi.

Un petrostato

Ma Nazarbaev aveva dalla sua anche diversi vantaggi significativi, a partire dalla ricchezza mineraria del Kazakhstan, consistente soprattutto nei giacimenti petroliferi e di gas della costa orientale del mar Caspio. Numerosi giacimenti della regione di Mangghystau vennero sviluppati ai tempi dell’Urss, mentre quello di Tengiz, scoperto all’alba della perestroika nella regione di Atyrau, Kazakhstan occidentale, viene sviluppato da un’azienda statunitense, Chevron. Nel 2000 venne identificato il giacimento offshore di Kashagan, di dimensioni ancora maggiori, oggi sviluppato da un consorzio di aziende europee.

Petrolio, gas e materie prime costituiscono circa il 70% delle esportazioni del Kazakhstan. Un altro 15-20% consta di metalli ferrosi, rame, zinco, vanadio e uranio. Gli unici prodotti dal valore aggiunto relativamente elevato sono i cereali e le sementi oleaginose del Kazakhstan settentrionale. L’industria tessile e calzaturiera del Kazakhstan è pressoché scomparsa per via dell’impossibilità di competere con i prezzi estremamente bassi dell’Uzbekistan, mentre quella ingegneristica non è stata al passo con il mercato mondiale. A favorirlo c’è stato il fatto che il Kazakhstan ha seguito una coerente politica economica di tipo liberista dalla metà degli anni Novanta, con il rifiuto dello Stato di intervenire nel settore.

Il Kazakhstan è tradizionalmente il traino della Csi [Comunità degli Stati indipendenti, costituita dopo la dissoluzione dell’Urss, NdT] in termini di investimenti stranieri pro capite, ma il denaro si concentra nella produzione petrolifera dell’ovest del Paese e, per certi versi, nella metallurgia delle regioni centrali, dominata da AcelorMittal Temirtau. Nel frattempo la popolazione del Paese ha visto un rapidissimo incremento nelle zone rurali del sud, il cui potenziale industriale e agricolo, nelle condizioni del modello economico liberista, resta sottosviluppato. P

rendiamo un fatto curioso: le colline pedemontane di Alatau sono il luogo ideale per la coltivazione delle mele. Qui il melo Sievers – antenato di tutte le moderne varietà di mele – cresce incontrastato. La stessa città di Almaty deve il suo nome alla parola kazaka “alma”, che vuol dire mela o melo. Negli anni Settanta nella regione di Alma-Ata si trovavano più di 3 milioni di alberi della sola varietà Aport. Ciononostante oggi il Kazakhstan esporta mele solo negli anni in cui il raccolto è particolarmente abbondante.

Come avviene di norma negli Stati esportatori (o “petrostati”, secondo il nome oggi di moda), i proventi del petrolio (e la spesa infrastrutturale corrispondente) hanno distrutto i settori manifatturieri dell’economia nazionale. Pertanto il prodotto interno lordo del Kazakhstan ammontava a1 63,23 miliardi di dollari nel 2020, 8,800 a persona. Il dato pro capite è appena al di sotto della Russia. Al contempo, però, il salario medio (ci riferiamo espressamente al periodo pre-coronavirus) è meno di 300 dollari al mese (282 dollari nel quarto trimestre del 2018), mentre in Russia era di 528 dollari ad aprile 2019. Il confronto con la media salariale in Russia è particolarmente significativo considerato che entrambi i Paesi sono membri dell’Unione economica euroasiatica (Unione doganale) e hanno in comune oltre 6.000 chilometri di confini, il che favorisce una tendenza generale a uniformare i prezzi delle merci.

Tutto sommato, però, il boom del petrolio ha completamente trasformato il Kazakhstan. Dopo il crollo degli anni Novanta, l’aumento dei prezzi dei primi anni Duemila guidò livelli di crescita del Pil da capogiro. Anno dopo anno si registravano cifre di crescita del 9-10%. La crescita si arrestò nel 2008-09, senza però gettare il Kazakhstan nella recessione, per poi riassestarsi a livelli del 5-7% annuo prima del crollo dei prezzi intorno al 2014. Malgrado la maggior parte delle spettacolari ricchezze estratte in questo periodo fu soffiata dal capitale straniero e dalle élite kazake che ne curano gli interessi locali, si è assistito comunque a un enorme miglioramento delle entrate delle famiglie operaie. Il reddito famigliare annuo pro capite è passato da poco più di $500 nel 2000 a un picco di poco meno di $4.500 nel 2014. Questo è stato uno dei principali fattori della lunga stabilità del regime.

Ma questa dipendenza dai profitti derivanti dal petrolio ha avuto un costo. La valuta del Kazakhstan, il tenge, dipende dai prezzi del petrolio ancor più del rublo russo. Se la svalutazione del rublo solitamente porta a esportazioni sostitutive e a una crescita compensativa nel settore manifatturiero, cui segue un aumento dei salari, nulla di tutto questo si è verificato in Kazakhstan dal 2014. Dal tonfo dei prezzi del petrolio di quell’anno, il reddito famigliare pro capite è precipitato dal picco di $4.500 al di sotto di $3.500 nel 2019. E parliamo di prima della pandemia. Tuttavia, mentre i salari stagnano o diminuiscono, i prezzi sono saliti sempre più.

Sono state smascherate le debolezze della strabiliante performance economica kazaka. Fino al 2014 i profitti legati al petrolio hanno permesso alla classe dominante di offrire certe concessioni alla classe lavoratrice, che da allora ha quindi dovuto garantire andando a rosicchiare le riserve statali. La spesa pubblica è aumentata ogni anno per una media del 20% in valori nominali, cui è corrisposto un calo delle risorse del Fondo nazionale della Repubblica del Kazakhstan, le cui azioni sono crollate del 26% dal 2014. Prima della pandemia il consumo di queste corpose riserve, accumulate negli anni del boom petrolifero, ha mascherato la profonda crisi che affliggeva il Paese. Tutto è cambiato con la crisi che ha accompagnato la pandemia nel 2020.

Prezzi in rialzo e le condizioni delle masse

Nel 2020 gli Usa, la Cina e i paesi Ue hanno effettuato ingenti iniezioni di denaro nelle loro economie nazionali per salvarle dall’impatto della pandemia. Ciò ha portato inevitabilmente a un deprezzamento delle loro valute nazionali e all’inflazione. Al contempo, il crollo dei rendimenti sui bond ha determinato un aumento nella domanda di futures sulle materie prime e i prodotti alimentari, che ne ha fatto schizzare i prezzi alle stelle.

Ma, come sempre avviene, le prime vittime di questa politica monetaria dei Paesi capitalisti avanzati non sono affatto i loro stessi cittadini. L’aumento del prezzo dell’olio combustibile, del grano e dell’olio di girasole, prodotti d’esportazione del Kazakhstan, hanno anche colpito il mercato interno. Nell’estate del 2021 i prezzi delle verdure sono aumentati dal 30 all’80% in tutta l’Unione economica eurasiatica. Il Kazakhstan si trovava però in una posizione ancora peggiore in virtù della svalutazione del tenge del 12% rispetto al rublo. Con un’inflazione al 9%, ciò è andato ad aggiungersi all’aumento dei prezzi delle esportazioni russe del 20%; il Kazakhstan è il principale importatore di beni manufatturieri russi.

Un altro elemento di traino dell’inflazione è la recente legge che consente ai cittadini kazaki di ritirare parte dei loro risparmi pensionistici per comprare proprietà immobiliari, il che ha generato un’impennata dei prezzi degli immobili e un aumento del 30% degli affitti nelle grandi città, anche se gli stipendi degli inquilini sono rimasti invariati. Questo è stato un duro colpo per i migranti rurali, che tendono ad essere anche inquilini.

Ma il catalizzatore immediato della crisi politica è stato l’aumento del gas liquido (Gpl: miscela di butano e propano). Il Gpl è usato nelle cucine di diversi Paesi. Propano e butano si trovano in ingenti quantità nel gas di petrolio combinato, generato durante la produzione del petrolio. In Russia e in Kazakhstan capita ancora che venga svasato durante la produzione per via delle difficoltà legate al suo trasporto. La sua relativa convenienza nei Paesi dell’Unione economica eurasiatica ne ha fatto un carburante largamente utilizzato in varie regioni, specie nei veicoli commerciali leggeri, o anche per il riscaldamento. La domanda interna di Gpl è precipitata durante il lockdown dell’estate del 2020 e il principale produttore, Sibur, ha aumentato notevolmente le esportazioni. Ciò ha fatto determinato, alla ripresa della domanda interna nell’estate del 2021, una scarsità di gas di carbonio liquefatto, peggiorata dall’incidente avvenuto il 5 agosto allo stabilimento Gazprom vicino a Novy Urengoy.

Il prezzo di un litro di Gpl presso i distributori russi è quindi raddoppiato per un breve periodo di tempo, mentre in Kazakhstan è fisso e significativamente inferiore rispetto alla Russia. Ciò ha naturalmente generato una penuria di gas liquido, specie nelle prossimità del confine russo, visto che risultava più redditizio esportarlo anziché venderlo ai prezzi locali. Al tempo stesso, il governo del Kazakhstan, preoccupato dai propri deficit di bilancio, non era disposto a ridurre le esportazioni di Gpl in Cina ed Ucraina e ha perciò optato per liberalizzare i prezzi, il che ha significato aumentarli a 120 tenge (circa 30 centesimi a litro). Potrà sembrare un prezzo contenuto, ma occorre tenere a mente che per i proprietari di veicoli a Gpl ciò ha comportato un raddoppio dei costi. Peggio ancora è andata per chi lo usava per il riscaldamento. Anche le loro spese sono raddoppiate, proprio nel mezzo di un inverno molto rigido. Per di più, gli operai petroliferi della regione di Mangghystau provavano un naturale risentimento all’idea di dover pagare prezzi esorbitanti per lo stesso gas che avevano estratto con le proprie mani.

Ricchezza e povertà

Il Kazakhstan ha una composizione demografica assai complessa. Nelle regioni bagnate dal Caspio, dove si trasferirono molti oralman, e nel sud basato sull’agricoltura di piccola scala, vi è un tasso di nascita di più di tre figli per coppia, mentre nel nord è meno di due, perlopiù concentrati nella capitale, Astana. Naturale conseguenza di ciò è la disoccupazione. I dati ufficiali la collocano al 5%, ma con un salario medio di appena 42.500 tenge ($110), il livello effettivo della disoccupazione e della sottoccupazione risulta più alto.

Da un lato, l’esercito industriale di riserva fa pressione sul mercato del lavoro. A facilitarlo c’è la legislazione del Kazakhstan in materia contrattuale, completamente strutturata a beneficio dei padroni. Anziché riqualificare e ricollocare i lavoratori, le multinazionali optano per i licenziamento di massa. Per esempio, nell’ovest del Paese, nella regione di Atyrau, con alti tassi di disoccupazione, a dicembre Tengizchevroil ha annunciato un piano di licenziamento per 40.000 operai. Tutto ciò ha portato alla stagnazione dei salari, sullo sfondo di un aumento dei prezzi. Atyrau era già la città più cara del Kazakhstan.

La migrazione di massa sta gonfiando la popolazione delle capitali Almaty e Astana. Intorno ad Almaty, specie nella periferia occidentale della città e nelle aree adiacenti della regione di Almaty, si è formata una cintura di ghetti e vere e proprie baraccopoli, dove vive circa un milione di persone. Svariati tentativi da parte delle autorità di demolire le case abusive della zona sono state accompagnate dalla resistenza disperata dei loro occupanti. I residenti, nella mancanza di un’educazione di qualità e con scarsi livelli di padronanza della lingua russa, sono costretti ad accettare i lavori peggio pagati. Principalmente svolgono attività ausiliarie presso i cantieri edili o piccole imprese. Chi vive nelle baraccopoli si ritrova a costruire case che non potranno mai permettersi, a trasportare casse di giocattoli che non possono comprare per i propri figli, e a fare la guardia a luoghi per il tempo libero che non potranno mai frequentare.

Non c’è bisogno di illustrare il potenziale rivoluzionario di queste categorie. Ma sarebbe ingenuo aspettarsi l’emersione spontanea di una perfetta disciplina rivoluzionaria. Da quando sono state spaccate le prime vetrine siamo stati costretti ad ascoltare i piagnistei di liberali disperati, schizzinosi “residenti nati e cresciuti ad Almaty” e filistei pieni di soldi sulla loro “amata città” che veniva “distrutta” da “orchi” e “migranti”, cioè chi ha preso parte al saccheggio di negozi e centri commerciali. Ma questo tipo di rivolta è la lingua dei più svantaggiati. Com’è possibile lasciarsi sorprendere o lamentarsi di questi avvenimenti quando lo Stato e i privati saccheggiano e rapinano il Paese su scala nazionale da trent’anni? Lasciamo i riformisti e i pacifisti ai loro piagnucolii.

Nulla di tutto ciò implica che gli attacchi ai negozi accompagnino inevitabilmente le rivoluzioni, né che siano auspicabili o che spingano in avanti il movimento. Ma è ovvio che la composizione sociale dei partecipanti alla protesta di Almaty, insieme a decenni di dura repressione di ogni tentativo di autorganizzazione di classe o politica alla luce del sole, hanno spianato la strada a questo susseguirsi di eventi.

Incapaci di confrontarsi con la realtà della società kazaka raccontata dalle proteste, le agenzie d’intelligence le hanno tentate tutte per trovarvi tracce di “influenza straniera”. Ad esempio i media kazaki hanno pubblicato il video di un uomo arrestato, con palesi segni di pestaggio in faccia, intento a confessare davanti alla telecamera che aveva ricevuto 90.000 tenge (200 dollari) per partecipare ai tumulti. L’uomo ha dichiarato di essere disoccupato e di arrivare dal Kirghizistan. Tuttavia i telespettatori non ci hanno messo molto per riconoscere Vikram Ruzakhunov, leader di un’orchestra jazz di Bishkek, dove poi si è svolto un presidio di solidarietà per il jazzista presso l’ambasciata kazaka. L’assurdità era così palese che Vikram è stato rilasciato.

Purtroppo non tutti i kirghizi detenuti dalla polizia ad Almaty la scorsa settimana sono musicisti famosi. La verità è che non cambia quasi nulla tra i giovani kirghizi della periferia di Bishkek, che hanno rovesciato i governi del Kirghizistan uno dopo l’altro, e i giovani kazaki delle periferie di Almaty. Il regime di Tokaev è sopravvissuto solo grazie alle dimensioni più estese e alla composizione più eterogenea del Kazakhstan rispetto al Kirghizistan.

La natura del regime

È qui necessario dire qualche parola sulla natura del regime kazako. A dispetto delle analogie superficiali fra i regimi autocratici di Putin in Russia e di Nazarbaev-Tokaev in Kazakhstan, fra i due esistono differenze significative. Putin è salito al potere nel mezzo del collasso economico e politico del regime oligarchico di Eltsin. Davanti alla minaccia di perdere le proprie ricchezze, gli oligarchi acconsentirono all’instaurazione di un regime bonapartista, perdendo il controllo politico immediato sullo Stato. Putin si è elevato al di sopra delle classi, compresa la borghesia instauratasi nel precedente periodo di controrivoluzione. Naturalmente questo processo è andato avanti con la partecipazione dello Stato, ma la privatizzazione di metà anni Novanta in Russia era una strada a doppio senso. Lo Stato dipendeva dagli oligarchi non meno di quanto gli oligarchi dipendessero dallo Stato. Questa codipendenza prese forma nelle elezioni presidenziali del 1996.

In Kazakhstan c’era una situazione diversa. La classe dominante era stata creata artificialmente, con l’aiuto di consulenti americani, tra gli amici e i parenti di Nazarbaev. Non meno artificiale era l’élite politica del Paese nella sua nuova capitale, Astana (ex Tselinograd, nella cintura del grano nel nord del Paese). A differenza di Putin, Nazarbaev non si è mai nemmeno sentito in dovere di fare demagogia sulla difesa della classe operaia dai capitalisti. Al contrario ha sempre sottolineato, con estremo cinismo, che la sua preoccupazione principale era l’attrattività del Paese in termini di opportunità d’investimento per il capitale straniero.

Tutta la storia del Kazakhstan moderno è segnata dalla lotta del regime contro il movimento sindacale, con persecuzioni di attivisti, repressioni delle lotte operaie e la presa o la liquidazione forzate dei sindacati indipendenti. Nei primi anni Novanta il bacino carbonifero di Karaganda fu l’epicentro di questa lotta grazie alla notevole influenza acquisita dai sindacati dopo lo sciopero dei minatori del 1989. L’unico risultato del successivo sciopero dei minatori del 5 maggio 1995, accompagnato dall’occupazione delle miniere e da uno sciopero della fame, fu la liquidazione di gran parte delle miniere stesse da parte di Nazarbaev e il loro trasferimento, privo di oneri, ad AcelorMittal Temirtau. Ai minatori lo Stato non diede nemmeno un centesimo.

All’inizio degli anni Duemila il punto focale della lotta operaia si spostò nell’ovest del Paese, impegnato dal 2001 in una battaglia per la creazione di sindacati indipendenti degli operai petroliferi. Questi ultimi scioperano regolarmente dal 2008. Dal 2010 il conflitto sindacale è divampato all’azienda petrolifera Karazhanbasmunai, nel corso del quale i teppisti assoldati dai padroni hanno picchiato e ucciso attivisti sindacali e dato fuoco alle loro abitazioni. Gli scioperi continuarono per tutta l’estate e l’autunno del 2011: centinaia di operai vennero licenziati e tre attivisti, tra cui l’avvocatessa e dirigente sindacale Natalia Sokolova, vennero dichiarati colpevoli di vari crimini. Infine, il 26 dicembre 2011, almeno 15 manifestanti vennero uccisi (secondo le cifre ufficiali) e centinaia feriti in scontri fra gli operai petroliferi in sciopero e la polizia a Jañaözen. Fioccarono anche centinaia di arresti.

Con questo non vogliamo dire che l’unico appoggio a Nazarbaev nel corso di questi oltre trent’anni sia giunto dall’apparato statale, l’esercito e la polizia. Nessun regime può essere tenuto in piedi così a lungo da metodi esclusivamente polizieschi. Al contrario, lo stesso boom degli anni Duemila – che permise alla classe dominante di fare concessioni ai lavoratori, rafforzandone la stabilità per un certo periodo – ha anche enormemente rafforzato la classe operaia, soprattutto nel settore petrolifero, la quale è entrata sempre più in conflitto con il regime. Come Marx ha avuto modo di spiegare molto tempo fa, con gli investimenti e lo sviluppo il capitalismo dà vita anche ai suoi stessi becchini.

Ancor più, il regime di Nazarbaev ha sobillato il sospetto reciproco fra russi e kazaki. Da una parte, la minoranza russa in Kazakhstan ha sempre goduto di una posizione relativamente confortevole. Il russo è usato non solo nella comunicazione quotidiana, ma anche nel lavoro burocratico ufficiale. Esistono numerose scuole russe e miste dove si insegna in russo e a cui molti kazaki sono disposti a mandare i propri figli. È possibile conseguire l’istruzione superiore in russo gratis. Tuttavia, secondo i dati del censimento del 2009, solo il 6,3% dei russi è in grado di leggere e scrivere in kazako, e meno del 20% è persino capace di capire il kazako parlato. Dato che la popolazione russa del Kazakhstan sta invecchiando rapidamente, non c’è ragione di credere che questi numeri siano cambiati di molto in 10 anni. Dall’altra parte, il 20% dei kazaki, soprattutto giovani delle campagne, non sanno il russo, un limite significativo alle loro opportunità lavorative.

L’élite bonapartista del Kazakhstan cerca di presentarsi davanti ai russi come garanzia della loro sicurezza, e ai kazaki come una forza in grado di negoziare con una Russia pericolosa e imprevedibile. Con il rapido declino della popolazione russa, questa demagogia perde sempre più rilevanza nel Kazakhstan di oggi, ma è stata usata per anni a giustificazione dello stile autocratico del governo e del divieto di quasi tutti i partiti politici.

Una pentola senza coperchio

Il sistema politico creato da Nazarbayev non tollera nessuna opposizione degna di questo nome. Tutti i partiti etnici, religiosi e comunisti sono stati messi al bando con il pretesto di garantire la pace civile.

Il Partito comunista del Kazakhstan (Kpk) si scisse nel 2004 dopo essere entrato nel blocco elettorale “Unione di opposizione popolare dei comunisti e del Dck [Scelta democratica del Kazakhstan, partito formato da un settore dell’elite, ndt]” per le elezioni parlamentari. La minoranza diede vita a un Partito comunista popolare del Kazakhstan, in realtà fantoccio del regime. Quest’ultimo non è però riuscito a entrare in parlamento finché al vero Partito comunista non è stato negato il diritto di partecipare alle elezioni del 2012, per poi vedersi negata l’iscrizione ufficiale al registro dei partiti politici nel corso dello stesso anno.

Arresti e omicidi occasionali di oppositori del regime sono pratica comune dei servizi speciali kazaki. I partiti d’opposizione, Scelta democratica del Kazakhstan e Alga!, sono stati messi fuori legge dalle autorità insieme ai partiti islamisti come Hizb ut-Tahrir al-Islami. A ogni modo, questi due partiti di cosiddetta opposizione non offrono alcuna fondamentale alternativa alle masse. Il leader di Scelta democratica, Mukhtar Ablyazov, per esempio, è un oligarca e già sodale di Nazarbayv, fuggito in Europa dopo essere caduto in disgrazia.

Formalmente il Kazakhstan ha sei partiti registrati, ma solo tre di questi sono rappresentati in parlamento: il filopresidenziale Nur Otan (Luce della patria), al governo, che detiene la maggioranza assoluta dei seggi, e due partiti di “opposizione costruttiva” creati scindendo altre forze politiche considerate troppo intransigenti contro Nazarbaev – “Ak Zhol”, di destra, e il Partito popolare, di sinistra, che di recente si è liberato della dicitura “comunista” dal nome. Oggi numerosi fra i più noti leader d’opposizione kazaki sono in esilio.

Dopo la repressione della stampa indipendente, qualche anno fa il Kazakhstan ha cominciato a limitare l’accesso ai siti on line dell’opposizione. Agli internauti viene richiesto di rinunciare volontariamente alla segretezza della loro corrispondenza mediante l’installazione di un certificato digitale speciale nella lista dei certificati affidabili del loro computer, fra le altre misure. Durante le ultime proteste, internet è stato spento senza troppi complimenti.

Tuttavia queste proteste di massa sono state la prova che stringere le viti non è affatto sufficiente per garantire la sicurezza del regime. Le proteste spontanee sono state accompagnate da un’auto-organizzazione spontanea. Attivisti politici e sociali, insieme a semplici cittadini insoddisfatti, si sono infatti radunati nelle piazze centrali delle città, dove a volte hanno allestito tende e yurte. Gli operai hanno legato fra loro e unificato le proprie rivendicazioni, comprese quelle politiche. Sebbene le proteste siano state represse, questa repressione delle proteste ha ben poco a che vedere con la durezza ostentata dal regime stesso.

La forza muscolare dell’esercito russo è stato chiaramente la chiave per rimettere in sesto il regime, ma non spiega come quest’ultimo sia stato in grado di stabilizzare temporaneamente la situazione. Per restaurare l’ordine il governo ha dovuto usare il bastone così come la carota. L’establishment kazako deve cercare di mantenere una patina di legittimità “democratica”: chi governa il Paese è più spaventato dalle masse che mai e sa benissimo di non poter restare al potere solo a suon di baionette. Oltre alla repressione di massa degli ultimi giorni abbiamo infatti assistito ad alcune concessioni economiche a determinati gruppi di lavoratori, con aumenti salariali del 10%, 50% o più in alcuni casi.

La promessa di maggiori libertà politiche rimarrà probabilmente poco più che vuote parole. All’inizio del suo regno, Tokaev ha promesso maggiori libertà politiche, ma non si sono mai materializzate. Organizzarsi resta vietato sia sul piano politico sia a livello industriale. È più probabile che le libertà promesse non verranno mai concesse finché perdura il regime, e man mano che aumenterà la pressione sulla classe operaia, il regime capirà che è come una pentola in ebollizione, il cui coperchio prima o poi salterà. Per di più, data la dipendenza dell’economia kazaka sui prezzi di mercato delle materie prime, questa esplosione non farsi attendere troppo.

Transizione di potere

L’anzianità del presidente a vita – in questo caso la “guida della nazione” (“Elbasy” in kazako) – presenta un grave problema per tutti i regimi bonapartisti: quello della successione. A differenza dell’ex presidente azerbaigiano Heydar Aliev, Nazarbaev non ha figli. Non se l’è nemmeno sentita di lasciare le redini del governo a sua figlia maggiore, Dariga, la quale a un certo punto è stata eletta presidente della camera alta del parlamento, mentre oggi è deputata della camera bassa.

Nominare Kasym-Jomart Tokaev suo successore nel 2019 è stato un compromesso. Tokaev ha studiato a Mosca, per poi lavorare per 15 anni al Ministero degli Esteri dell’Urss come diplomatico professionista. Ha poi guidato il Ministero degli Affari esteri del Kazakhstan indipendente. A un certo punto è stato primo ministro, ma non ha ma fatto veramente parte di nessun “clan” o fazione della classe dominante e dell’élite politica. Non aveva nemmeno una cerchia di fidi collaboratori che contassero qualcosa. Si trattava ovviamente di un politico accettabile a Mosca. Tokaev manca però delle connessioni e dell’influenza godute da Nazarbev fra le élite kazake, fonte ultima della sua autorità. Senza un pugno di ferro a capo, è sempre più probabile che nell’élite politica del Kazakhstan e nella classe dominante possano consumarsi delle scissioni. Sarebbe stato impensabile sotto Nazarbaev.

La prima decisione del neopresidente Tokaev, presa quasi subito la “transizione”, è stato rinominare la capitale Nur-Sultan. Questo nome non ha attecchito ed è usato di rado al di fuori dei documenti ufficiali. Tokaev stesso si è visto dare il soprannome di “fermacarte” ed ha acquisito la reputazione di un capo di Stato debole, un prestanome, senza vera autorità. Il potere de facto rimaneva nelle mani di Nazarbaev, e in parte anche il potere de jure, in virtù del suo diritto a ricoprire a vita la carica di presidente del Consiglio di sicurezza.

Figurarsi quindi la sorpresa con cui sono state accolte le parole di Tokaev in un discorso televisivo datato 5 gennaio: “In qualità di capo dello Stato e, a partire da oggi, presidente de Consiglio di sicurezza, intendo agire il più duramente possibile”. Considerato che, per quella data, Nazarbaev stesso non era ancora apparso in pubblico e non aveva lanciato alcun appello (né l’ha fatto tuttora), c’erano tutti gli elementi per pensare, se non a un golpe, quantomeno a uno spostamento significativo nell’equilibrio di potere interno al regime. Impressione apparentemente confermata dalla notizia della rimozione del capo del Knb, Karim Masimov. Stretto alleato di Nazarbaev ed ex primo ministro, Masimov è ora agli arresti, sospettato di tradimento. Tutto ciò, cui si aggiunge l’evidente inezia del Knb durante i fatti di gennaio, ha subito portato molti osservatori a collegare l’insurrezione a un tentativo della cerchia di Nazarbaev, e soprattutto Masimov, di rimuovere Tokaev dal potere.

Altri, al contrario, intravedono la mano del presidente in carica. Si tratta ovviamente di un grossolano minimizzazione del ruolo delle masse, che hanno tenuto l’iniziativa per tutta la settimana delle proteste, costringendo il regime a battere più volte in ritirata. È anche chiaro però che il movimento ha esacerbato lo scontro fra le diverse ali della classe dominante, che hanno cercato di usare le proteste per colpirsi a vicenda. Qualunque siano gli intrighi di palazzo messi opportunisticamente in moto dai parassiti e sanguisughe al potere, l’insurrezione di massa di gennaio non è stata generata da un complotto o un colpo di Stato. Essa aveva la sua logica e ad essa rispondeva.

A ogni modo, il “vecchio” e i membri più importanti del suo entourage e della sua famiglia sono stati allontanati dal potere. La dice lunga l’assenza prolungata dello stesso Nazarbaev. Da parte sua non è arrivata nessuna dichiarazione pubblica fino al 18 gennaio, e solo allora il suo portavoce ha detto che il primo presidente aveva ceduto di sua spontanea volontà la presidenza del Consiglio di sicurezza a Tokaev e chiesto ai cittadini di stringersi attorno al presidente in carica. Non è apparsa in pubblico nemmeno Dariga Nazarbaeva (i suoi assistenti dicono che è in congedo per malattia, “a casa ad Almaty”). Aliya Nazarbaeva (sua figlia minore) ha scritto su Instagram (a quanto pare mentre si trovava negli Emirati arabi) che è “grata per il sostegno morale di suo padre in questo momento”. Secondo alcune voci, anche il suo potente fratello minore, Bolat Nazarbaev, sarebbe partito per Dubai attraverso il Kirghizistan. Inoltre tutti i tre generi di Nazarbaev sono stati rimossi dalle loro posizioni dirigenziali nelle aziende di Stato del petrolio e del gas e dalla Associazione nazionale degli imprenditori, un importante e potente organo rappresentativo della borghesia nazionale. Quando Nazarbaev stesso, il 18 gennaio, è stato finalmente portato a registrare un discorso pubblico, non ha detto granché a parte affermare che (dal 2019) era solo un “pensionato”, rassicurare il pubblico che non c’erano scontri nelle élite, e affermare che il presidente in carica aveva piena autorità.

È tuttavia significativo che la “vittoria” del successore sul predecessore resti rigorosamente un non-detto. Per esempio il Ministero dell’Informazione ha intimato all’agenzia regionale Fergana di rimuovere un articolo intitolato “Transizione terrorista”, in cui l’autore discuteva gli scontri di fazione dell’élite kazaka. D’altra parte un’aperta ammissione che “i piaceri dei potenti sono le lacrime dei poveri” sarebbe terribilmente imbarazzante per il regime e ne metterebbe a serio repentaglio la legittimità.

L’imperialismo

Sino al 2014 la questione della minoranza russa in Kazakhstan era ai margini del dibattito politico in Russia, monopolizzato da figure minori come Žirinovskij e Limonov. All’inizio degli anni Duemila i circoli governativi russi credevano che i prezzi del petrolio sarebbero saliti per un periodo di tempo indefinito e che il petrodollaro sarebbe stato sufficiente a coprire ogni spesa pubblica. Il 7 novembre 2007, dopo aver firmato un decreto sulla costruzione del cosmodromo Vostochny nella regione dell’Amur, Putin ammise che era pronto a tagliare la testa al toro abbandonando il cosmodromo Baikonur, in Kazakhstan. Tuttavia la crisi del 2008 e il successivo crollo dei prezzi del petrolio lo hanno costretto a riprendere in seria considerazione i settori non estrattivi dell’economia.

Solo nel 2010, con l’abolizione delle frontiere doganali, la Russia cominciò a cercare di attirare altri Paesi membri della Csi, Ucraina in primis, all’interno dell’unione. Alla fine ciò ha portato a un conflitto di interessi fra l’Ue e la Russia, e all’Euromaidan in Ucraina. Con la debacle ucraina, Putin è riuscito a convincere solo l’Armenia e il Kirghizistan, due minuscole economie, a entrare nell’unione.

È ovvio che la Russia non è in grado di competere con gli Usa, l’Ue o la Cina nel mercato dei capitali – in termini di investimenti diretti nell’economia del Kazakhstan, la Russia disputa un misero quinto posto con la Cina. In effetti il Kazakhstan è un paese dei balocchi per l’imperialismo: il 70% degli investimenti in Asia centrale passano per il Kazakhstan, per un totale di 350 miliardi di dollari negli ultimi vent’anni. Primi fra gli investitori sono l’Olanda, gli Stati Uniti, la Svizzera e la Cina. Nonostante la sua vicinanza, la Russia è solo il quinto maggiore investitore in Kazakhstan.

L’unica parte che Putin può giocare per Tokaev è quella di Nicola I: il gendarme. Resta da vedere quali promesse siano state fatte a Putin in cambio del suo appoggio. Al netto di ogni do ut des con Tokaev, l’intervento di Putin in Kazakhstan è mosso da chiare motivazioni interne: la rabbia e la frustrazione crescenti dei lavoratori kazaki rispecchiano quelle dei loro fratelli e sorelle russi.

È chiaro che, nel breve termine, lo sviluppo degli eventi rafforzerà la posizione della Russia non soltanto in Kazakhstan, ma in tutta l’Asia centrale. Ma i popoli non gradiscono i gendarmi: più attiva sarà l’ingerenza di Putin negli affari del Kazakhstan, maggiore sarà il malcontento della classe dominante e del popolo lavoratore kazaki. Peraltro, l’intervento del contingente Csto, composto per la maggior parte da soldati russi, rischia di complicare la situazione interetnica in Kazakhstan.

Fra le altre cose, l’insurrezione di gennaio ha nuovamente confermato la debolezza e la dipendenza del regime kazako, il cui ruolo principale è proteggere i diritti e gli interessi proprietari del capitale transnazionale. Come già spiegato, per decenni il governo borghese ha schiacciato i sindacati e tenuto il grosso della popolazione nella sottomissione e nella povertà; in altre parole, ha creato un clima favorevole agli investimenti in un Paese specializzato nell’estrazione ed esportazione di materie prime. In risposta ai fatti di gennaio si è formata una “empia alleanza” di tutti i principali imperialisti della regione e del mondo in sostegno del governo attuale, comprendente la Federazione russa, gli Usa, l’Ue, la Cina e la Turchia. Una così rara unanimità si deve al fatto che lo status quo del Kazakhstan moderno sta bene a tutti gli attori internazionali; la prospettiva di una vittoria delle rivendicazioni economiche e democratiche delle masse costituisce una minaccia non solo per i capitalisti kazaki, ma anche per quelli stranieri.

Le prospettive e la strada verso la vittoria

La fase calda dell’insurrezione è finita e sta cominciando un periodo di raffreddamento e riflessione, durante il quale tutte le parti coinvolte dovranno giudicare quanto è avvenuto, trarre le dovute conclusioni e volgere lo sguardo al futuro.

Dai primissimi giorni della crisi di gennaio il regime ha applicato un combinazione di concessioni e misure repressive. Le autorità non hanno altra scelta che continuare con tattiche analoghe per ripristinare almeno parte della propria legittimità e rafforzare la propria posizione. Il discorso di Tokaev al parlamento dell’11 gennaio è indicativo di questo approccio.

Da una parte, il presidente si è rivolto alla borghesia, ai settori più ricchi e alla classe media urbana spaventata. Per compiacere questi settori è stato annunciato un intero pacchetto di misure mirato a rafforzare le forze di sicurezza, che comprende un drastico aumento dei fondi per la modernizzazione tecnologica, più organico e un importante innalzamento degli stipendi. Dopotutto i fatti di gennaio hanno dimostrato che molti anche fra le forze di sicurezza non sono fedeli al governo e spesso non sono disposti a difenderlo.

Ancor più importante è che Tokaev ha adottato una retorica enfatica sulla giustizia sociale e contro le diseguaglianze, unita ad attacchi diretti e indiretti contro i “gruppi delle oligarchie finanziarie” presentanti come “i principali beneficiari della crescita economica”. Sono state prese di mira anche le élite politiche del Kazakhstan stesso, accusate esplicitamente di corruzione e abuso dei fondi statali per interessi personali. Nelle parole di Tokaev: “noi conosciamo i nomi di tutti [coloro che sono coinvolti nella corruzione]”. Pur non menzionandone nemmeno uno, il suo discorso conteneva un attacco velato a Nazarbaev: “Grazie al primo presidente Elbasy, hanno preso forma nel Paese un gruppo di aziende assetate di profitto e uno strato di individui ricchi, anche secondo gli standard internazionali. Credo sia giunto il momento di pagare il tributo al popolo del Kazakhstan e aiutarlo in modo sistematico e regolare”. Si è fermato poco prima di dirlo chiaro e tondo, ma era un chiaro segnale che Elbasy (Nazarbaev) e la sua famiglia sono stati rimossi dal potere. Tokaev sta cercando di convincere il pubblico che l’ostacolo principale, incarnato dal vecchio autocrate corrotto, è stato tolto di mezzo, e che il presidente in carica, grazie al pieno potere che ha ottenuto, sarà finalmente capace di “mettere ordine”, implementare le riforme più urgenti e combattere la corruzione.

In una certa misura, lo stratagemma ha funzionato. Oggi in Kazakhstan si ravvisa una gamma piuttosto vasta di reazioni al discorso di Tokaev – dall’approvazione entusiastica al cauto interesse – come riflesso di una parte significativa dell’opinione pubblica che, in generale, è pronta a dare un certo grado di fiducia al presidente, in un modo o nell’altro, o almeno concedergli un “periodo di prova” per vedere se manterrà le sue promesse.

Ma queste illusioni saranno presto deluse, sia dalle peculiarità del sistema politico del Kazakhstan, sia dalla realtà dell’economia capitalista di mercato, di cui Tokaev resta uno strenuo difensore. In primo luogo, non è del tutto chiaro in quale misura Tokaev riuscirà ad allargare la sua autorità fra le varie fazioni e “clan” del sistema politico. A giudicare dai rimpasti molto modesti del governo e dell’apparato statale intrapresi finora (a parte le purghe su vasta scala delle strutture del Knb e, in misura minore, del Consiglio di sicurezza), il presidente è incapace o non intenzionato a intraprendere misure serie. Fra le riforme annunciate non ve n’era neanche una che si potesse definire “democratica”.

In secondo luogo, la classe dominante non ha i mezzi materiali né gli strumenti per realizzare qualsivoglia miglioramento serio e a lungo termine della sfera socioeconomica. È già noto che la regolamentazione dei prezzi del gas e altri carburanti, annunciata nei primissimi giorni delle proteste, verrà messa in atto coprendo i costi del settore privato, cioè compensando le aziende per la differenza fra il reale prezzo di mercato e il prezzo al dettaglio. I fondi per mitigare gli ammanchi verranno dalla tesoreria di Stato, e in ultima analisi dal valore prodotto dalla classe operaia del Kazakhstan. Questo dovrebbe servire da lezione per capire che un’autentica regolamentazione dei prezzi è impossibile in un’economia di mercato.

Non è ancora chiaro quali misure intenda prendere Tokaev per ottemperare alle sue promesse di aumentare i redditi della popolazione, ridurre la disoccupazione e creare mobilità sociale. Gli scioperi e altre azioni militanti dei lavoratori dei giacimenti di Tengiz e altre aziende industriali della regione di Aktobe, nell’ovest del Kazakhstan, hanno ottenuto notevoli vittorie in termini di aumenti salariali, che saranno sicuramente una fonte d’ispirazione e una lezione di lotta di classe per altri lavoratori. Tuttavia, da ormai trent’anni il maggiore ostacolo al progresso sociale, ancor prima della corruzione e del peculato, è l’amara realtà politica ed economica del sistema capitalista, e la posizione del Kazakhstan nel mercato mondiale come esportatore di materie prime. Infine, l’economia kazaka soffre da tempo di alti livelli di inflazione e la situazione sta solo peggiorando. Che le autorità decidano di continuare a intervenire nel mercato delle valute, nel quale sono interveuti con 240 milioni di dollari solo il 12 e 13 gennaio, o che permettano ai tassi di scambio di andare in caduta libera, ci saranno gravi conseguenze per la situazione finanziaria dei cittadini e per il bilancio statale.

Lungi dall’essere in grado di soddisfare le rivendicazioni socio-economiche della classe lavoratrice del Paese, il governo Tokaev è impotente anche di fronte al deterioramento della sua stessa situazione del bilancio statale.

In un contesto del genere la repressione diventerà sempre più l’unico puntello del potere. Il regime non ha avuto remore di annegare l’insurrezione di gennaio nel sangue. Un’ondata di arresti si è già abbattuta su giornalisti e attivisti che hanno preso parte o semplicemente raccontato le manifestazioni nelle varie città. Il Ministero degli Affari interni ha riferito di avere messo agli arresti migliaia di “terroristi” (l’11 gennaio la cifra ufficiale si avvicinava ai 10.000 arresti), contro cui pendono accuse di sommossa, sedizione e crimini rispondenti agli articoli del codice criminale sul terrorismo. È possibile che, come avvenuto in Bielorussia, vedremo presto arresti e incarcerazioni solo per avere linkato e condiviso materiali sui social media. È anche probabile che le autorità cercheranno di spaccare il movimento e dividere i settori insoddisfatti della società secondo vari parametri – etnici, religiosi e regionali – al fine di sviare il potenziale rivoluzionario del proletariato kazako verso i canali distruttivi del nazionalismo, del fondamentalismo religioso e persino del tribalismo.

Tutto ciò rende ancora più urgente per i lavoratori e i giovani del Kazakhstan trarre i dovuti insegnamenti e conclusioni dalla battaglia rivoluzionaria che ha scosso il Paese, e prepararsi a continuare la lotta fino alla fine. L’insurrezione di gennaio non è stata un movimento isolato. Vi hanno partecipato vari gruppi sociali, lavoratori, intellettuali, giovani e i poveri delle periferie urbane, con diverse esperienze di lotta politica, e spesso senza averne alcuna. Se la coesione e l’organizzazione dei lavoratori, la resilienza degli attivisti politici sperimentati e la determinazione e l’intransigenza dei giovani fossero riuscite a confluire in un unico canale, il regime di Tokaev non avrebbe avuto scampo. Una tale unità non è stata raggiunta perché è mancata una direzione con le idee chiare. Le forze principali dei manifestanti erano divise sul piano sociale e persino territoriale. La classe lavoratrice non è riuscita a organizzare e disciplinare i giovani. Inoltre, le proteste esclusivamente economiche in Kazakhstan non possono vincere senza un programma democratico e socialista.

Il principale slogan politico delle proteste, “Shal, ket!” (“Vattene, vecchio!”), parla ora al passato. Nazarbaev è caduto e non tornerà. Oggi questo slogan legittima subdolamente Tokaev e il suo regime. Ci servono nuovi slogan concreti per la trasformazione della società su basi democratiche. Stanno prendendo piede rivendicazioni contro la repressione, per il rilascio dei prigionieri politici e degli attivisti arrestati e per concedere complete libertà alle organizzazioni sindacali e politiche.

Il movimento operaio deve abbracciare gli strati più vasti possibili delle masse lavoratrici e offrire le proprie soluzioni ai loro principali problemi. Deve anzitutto avanzare rivendicazioni transitorie: nazionalizzazione dei settori estrattivi, manifatturieri e finanziari dell’economia; esproprio coordinato di tutti gli oligarchi; pieno controllo pubblico delle forze dell’ordine, fino al loro scioglimento e sostituzione con milizie popolari per mantenere l’ordine. Gli intellettuali di sinistra devono mostrare la via corretta alle masse, compresi gli elementi più arretrati. Devono parlare la lingua delle masse; devono trovare una forma di espressione politica che li connetta con le aspirazioni delle masse. Se ciò avverrà, il movimento rivoluzionario delle masse lavoratrici del Kazakhstan sarà inarrestabile!

Join us

If you want more information about joining the RCI, fill in this form. We will get back to you as soon as possible.