Iraq: Contro fondamentalismo e imperialismo! Italian Share TweetIn una conferenza stampa concessa lo scorso 28 agosto, il presidente Usa Barack Obama ha ammesso di “non avere ancora una strategia per combattere i miliziani dell’Isis”. La confessione di Obama rivela tutto l’impasse degli Usa davanti alla nuova, esplosiva crisi provocata in Medio oriente dall’avanzata dell Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del levante.I bombardamenti operati dalle forze aeree statunitensi, definiti attacchi “umanitari” come quelli operati da Bush padre e figlio nel 1991 e 2003, hanno avuto come giustificazione quella di fermare la barbarie delle milizie fondamentaliste. Le immagini delle terribili azioni dell’Isis rimbalzano infatti su tutti i mass media e non possono che provocare disgusto e repulsione. I profughi nella regione sono centinaia di migliaia, i morti si contano a centinaia se non a migliaia.Una cosa balza, tuttavia, subito agli occhi. Per il governo Usa ci sono massacri di serie A e massacri di serie B. Mentre bombardano il Nord dell’Iraq, non hanno mosso un dito, anzi hanno attivamente sostenuto, l’aggressione di Israele a Gaza, che ha provocato oltre 2mila vittime palestinesi.L’ascesa dell’Isis, inoltre, non proviene dal nulla. È il prodotto diretto dell’intervento dell’imperialismo Usa e dei suoi alleati nel 2003 e della scelta operata da Washington di dissolvere letteralmente l’apparato statale di Saddam e di crearne uno nuovo, quasi dal nulla. Ricordiamo che prima del 2003 al Qaeda era una forza sconosciuta in Iraq. Nella più classica politica del “divide et impera” Washington si è basata sugli sciiti per governare il paese. Allo stesso tempo ha garantito una larga autonomia ai curdi nel Nord del paese.Nel fare ciò, gli Stati Uniti hanno operato una sistematica repressione della popolazione sunnita, prima come truppe di occupazione, poi appoggiando senza riserve (fino a poche settimane fa) il governo di al Maliki.Oggi guardiamo con orrore alla barbarie dell’Isis, ma possiamo definire in altro modo le operazioni militari degli Usa? Tra il 2003 e il 2011, il periodo dell’occupazione alleata, si stima che quasi mezzo milione di iracheni siano morti per cause dirette o indirette legate alla “guerra al terrore” (France press, 15 ottobre 2013). E qualcuno si è forse dimenticato del fosforo bianco e dell’uranio impoverito utilizzati dalle truppe Usa nell’assalto a Fallujah nel novembre 2004, documentato da diverse inchieste giornalistiche?L’intervento di Obama in Iraq non ha l’obiettivo di evitare un disastro umanitario, non vi è alcuna difesa dei valori assoluti della democrazia in gioco. L’unico proposito è quello di difendere gli interessi americani nella zona.La natura del fondamentalismoIn primo luogo il fondamentalismo religioso è stata un’arma usata dalle classi dominanti, sia in oriente che in occidente e particolarmente dopo il crollo dello stalinismo, per frenare lo sviluppo della lotta di classe. Un’arma ideologica, che ha avuto in Samuel Huntington e nel suo “scontro di civiltà” il suo principale teorico e che poi è divenuta reale, finanziata e promossa in decine di paesi.Oggi quest’arma si ritorce contro la borghesia americana. La Cia e il Pentagono hanno creato non uno, ma diversi mostri di Frankestein che non riescono più a controllare.Se in Iraq gli Usa bombardano l’Isis (“la più grande minaccia mai esistita per l’Occidente”), in Siria lo Stato islamico non era affatto un nemico ma ha rappresentato un alleato nel tentativo di rovesciare il regine di Assad.La Cia ha aiutato l’addestramento e il finanziamento dei ribelli siriani, attraverso gli alleati arabi e la Turchia ed ha sollecitato inizialmente l’esercito libero siriano ad accogliere nelle proprie fila i miliziani fondamentalisti.Ancora oggi l’Isis, nato nel 2004 dall’unione di varie formazioni salafite e jihadiste, riceve numerosi finanziamenti dall’Arabia saudita e, dopo la conquista di importanti giacimenti minerari nel Nord dell’Iraq, si finanzia esportando il greggio attraverso la tacita collaborazione della Turchia. Pare che tale traffico porti quasi tre milioni di dollari al giorno nelle casse dello Stato islamico! Arabia saudita e Turchia sono alleati di Washington, quest’ultima è addirittura membro della Nato, ma Obama non ha alcuna intenzione di richiedere sanzioni nei loro confronti.L’appoggio al Maliki ha portato a un’aumento dell’influenza dell’Iran (“l’asse del male” ai tempi di Bush) in Iraq, un fatto che non poteva essere assolutamente tollerato dai sauditi, nemico storico di Teheran nel Medio Oriente. Il finanziamento e l’appoggio alle milizie fondamentaliste sunnite da parte di questi ultimi era una conseguenza inevitabile: tali milizie hanno sgominato dal punto di vista militare ogni altra opposizione.La situazione è talmente paradossale che i nemici di ieri sono divenuti gli alleati di oggi, come nel caso dell’Iran, o potrebbero diventarlo, come in quello della Siria, per consentire agli Usa di non essere estromessi completamente dalla regione. Come disse a suo tempo Madeleine Albright (segretario di Stato del secondo mandato di Bill Clinton) “non ci sono alleati permanenti, solo interessi permanenti” per le classi dominanti.Il declino della potenza americana, insieme allo sconvolgimento della regione successivo alle rivoluzioni dell’inizio del 2011, hanno concesso un maggior margine di manovra alle potenze regionali. Non solo l’Iran, ma anche storici alleati dell’occidente come Arabia saudita, Qatar e Turchia perseguono interessi propri che non necessariamente coincidono con quelli degli Usa anzi spesso e volentieri nell’ultimo periodo entrano palesemente in conflitto.In Iraq assistiamo dunque a una guerra civile per procura, dove ogni potenza utilizza le varie etnie e fazioni come pedine, consapevoli o meno, per realizzare i propri obiettivi. La divisione del paese è nei fatti e il conflitto durerà, molto probabilmente a lungo.LibiaUna divisione che è ormai realtà anche in Libia. Nel 2011 gli Stati Uniti, insieme alle altre potenze occidentali e ai loro alleati arabi, lanciarono una serie di attentati contro il regime di Gheddafi, incuneandosi all’interno delle contraddizioni presenti nelle forze che avevano dato il via a una rivolta popolare sulla scia delle rivoluzioni tunisina ed egiziana. Alla fine si liberarono di Gheddafi, seviziato ed ucciso da un gruppo di insorti (dopo essere stato intercettato dall’aviazione francese), ma oggi la Libia è in una situazione di disintegrazione e di guerra civile. Le varie milizie, dopo una temporanea e precaria unità, hanno ingaggiato una battaglia senza quartiere per il controllo del paese. All’ascesa delle forze fondamentaliste, con la Cirenaica di fatto fuori dal controllo del governo centrale, ha cercato di ovviare nel maggio scorso l’ex agente della Cia Khalifa Aftar, con il golpe denominato “Karama” (operazione dignità) e l’appoggio diretto del governo egiziano.Oggi abbiamo in Libia due primi ministri e due parlamenti. Uno a Tripoli, guidato da Omar al Hassi a maggioranza “islamica” sostenuto da Qatar e Turchia, l’altro a Tobruk, “laico” sotto il controllo di Aftar e sponsorizzato dal Cairo. Nelle ultime settimane Tripoli ha compiuto vittorie importanti, riconquistando l’aeroporto della capitale stessa e la città di Bengasi. Nella guerra per procura che si sta portando avanti in Libia la situazione è magmatica e l’esito tutt’altro che scontato.Una cosa è certa: Washington e Parigi, maldestri apprendisti stregoni, controllano ben poco di quello che sta succedendo nel paese alle porte dell’Europa.La crisi degli Stati nazionaliIl conflitto che ormai sta dilagando in tutto il Medio Oriente ha operato un salto qualitativo e posto in discussione confini ed equilibri decennali. Da una parte le frontiere erano artificiali, il prodotto della spartizione tra Francia e Gran Bretagna, attraverso l’accordo Sykes-Picot, dell’impero ottomano all’indomani della Prima guerra mondiale. Un altro frutto avvelenato dell’imperialismo. Dall’altra parte l’escalation attuale rivela la totale incapacità delle borghesie nazionali del Medio Oriente non solo di sviluppare in maniera armonica le rispettive economie ma anche di mantenere l’integrità dei propri Stati nazionali.Negli anni ’50 e ’60 la rivoluzione coloniale aveva portato al potere in paesi come Siria, Egitto, Iraq e successivamente in Libia, governi progressisti che avevano fatto della liberazione e dell’indipendenza nazionale una propria bandiera, suscitando grandi speranze. Tuttavia, non volendo andare oltre i limiti del capitalismo (o dello Stato operaio deformato ad immagine dell’Unione sovietica, nel caso della Siria), la spinta rivoluzionaria si è esaurita e tutta una serie di riforme progressiste si sono trasformate nel loro contrario. Il crollo dello stalinismo, con l’assenza di un contrappeso al sistema di mercato e alle mire dell’imperialismo, hanno accelerato tale processo.La crisi del nazionalismo borghese “progressista” non ha portato solamente alla sottomissione dei paesi del mondo arabo a potenze imperialiste o imperialiste regionali, ma addirittura alla disintegrazione di questi stessi Stati. La crisi delinea, oggi più che mai, l’impossibilità di una via di uscita “nazionale” all’impasse posto dalla crisi del capitalismo e al dominio dell’imperialismo.Ritornando agli accordi Sykes-Picot, il fatto che l’Isis abbia come obiettivo strategico la ricostituzione dell’impero ottomano costituisce una tragica nemesi storica per l’occidente.Per tutti coloro, anche a sinistra, che concedevano un qualche tipo di contenuto progressista all’intervento delle forze occidentali in Libia o in Siria (attraverso una presunta esportazione della “democrazia”), la conseguente ascesa del fondamentalismo costituisce una condanna senza appello.L’Iraq e la questione curdaLe dichiarazioni di Obama rivelano tutta la frustrazione della borghesia e dimostrano che l’intervento imperialista non risolve alcuno dei problemi, ma anzi li aggrava, aumentando l’odio delle masse, in primo luogo sunnite ma non solo, nei confronti dell’occidente. Ed infatti negli ultimi giorni, il conflitto è arrivato alle alture del Golan, ai confini tra Siria e Israele. I fragilissimi equilibri raggiunti in Libano sono sul punto di essere spezzati. La brutalità di Israele nei confronti di Gaza e della Palestina non si può comprendere senza la necessità da parte di Netanyahu di mostrare i muscoli in un contesto dove le alleanze e i punti di appoggio tradizionali del sionismo sono in gran parte saltati.Nella stessa conferenza stampa del 28 agosto, Obama parlava della necessità di creare una nuova “coalizione internazionale” che sostenga le forze irachene e curde. Ma non è chiaro da chi dovrebbe essere composta.A Baghdad al Maliki dovrebbe essere stato “dimissionato” ma mantiene ben strette le leve del potere militare. Sono sempre più numerosi i resoconti di scontri armati in cui sono coinvolte truppe iraniane sul suolo iracheno. I governi occidentali denunciano scandalizzati i crimini dell’Isis, ma si guardano bene dal considerare l’ipotesi di un invio di propri uomini di nuovo a Baghdad, anche se è un’ipotesi che non può essere scartata nel medio termine, se costretti da una situazione bellica che degenerasse totalmente.Obama ha deciso di utilizzare per il momento le truppe irachene e il governo della Regione autonoma del Kurdistan con le proprie forze armate, i peshmerga. In un primo momento i curdi avevano cercato di avvantaggiarsi del crollo dello Stato centrale iracheno e dell’avanzata dell’Isis occupando Kirkuk, la Gerusamme dei curdi ma, inevitabilmente, sono stati successivamente oggetto degli attacchi dei miliziani fondamentalisti. Il Kurdistan iracheno negli ultimi anni si è garantito una sempre maggiore autonomia economica, militare e amministrativa. Lo storico problema dell’autodeterminazione curda, a cui fu negato uno Stato dagli accordi del 1920, sembra essere risolto, nelle menti delle élite curde dell’Iraq, attraverso un gioco di equilibri con la Turchia (che usa la questione curda in funzione antisiriana) ed oggi con l’appoggio degli Stati Uniti.Tuttavia la storia insegna quanto sia pericoloso per le piccole nazioni oppresse affidare i propri destini alle grandi potenze, che usano questi popoli come pedine nella scacchiera di un gioco molto più grande.Tutta l’esperienza dei Balcani, con l’amaro destino a cui sono soggetti i popoli bosniaco o kosovaro, lo dimostra. Ulteriore conferma viene dall’esperienza del Sud Sudan, che ha ottenuto l’indipendenza con la diretta sponsorizzazione di Washington ed oggi è sconvolto da una guerra civile sanguinosa.Nel contesto della guerra civile siriana, i combattenti del Ypg, braccio armato del Pyd (Partito di unione democratica), sono riusciti a liberare una regione, quella del Rojava nel Nord del paese e ad avviare un’esperienza di autogoverno. Il Pyd è il corrispettivo in Siria del Pkk, il partito del lavoratori del Kurdistan, di cui “Apo” Ocalan, oggi sepolto vivo nelle carceri turche, è il leader storico. I combattenti del Ypg hanno respinto gli assalti dell’Isis e sono oggi tra i principali protagonisti della guerra contro le milizie fondamentaliste.Il coraggio dimostrato dai combattenti del Pkk è encomiabile e l’eroismo di questi uomini e donne un esempio per tutti i giovani e i lavoratori. Rappresentano una fonte di preoccupazione per gli Usa, che si rifiutano di armare direttamente le forze del Ypg e continuano a mantenere il Pkk nella lista delle organizzazione terroriste.La strategia della direzione del Pkk contempla due aspetti: in primo luogo, quella del negoziato con Ankara per la conclusione del conflitto con lo Stato centrale e per la liberazione dei prigionieri politici, e quella dell’unità nazionale con le altre forze politiche curde in Iraq.Mentre un’unità dal punto di vista militare per respingere l’Isis è assolutamente necessaria, pensiamo che siano fuorvianti appelli come quelli formulati da Yilmaz Orkan, rappresentante in Italia del Consiglio nazionale curdo: “Chiediamo che anche gli Stati Uniti lo sostengano [il progetto di autogoverno] per introdurre veramente la democrazia in Medio Oriente” (controlacrisi.org, 31 agosto 2014).La Carta del contratto sociale del Rojava (una sorte di Carta costituzionale) afferma che il proposito dell’autogoverno è quello di creare “il tessuto politico e morale di una società democratica al fine di operare nella mutua comprensione e coesistenza nella diversità e nel rispetto per il principio di autodeterminazione ed autodifesa dei popoli” (da www.infoaut.org). L’esperienza dell’autogoverno dei tre cantoni del Rojava dovrebbe essere estesa a tutto il Kurdistan e poi al Medio Oriente. Nella Carta non c’è alcuna indicazione del sistema economico che dovrebbe essere istituito in queste zone autogovernate.Possiamo supporre che la leadership del Pkk abbia in mente due fasi: la prima, quella democratica, dove il Kurdistan svilupperebbe la propria economia attraverso le ingenti risorse di materie prime e una seconda dove potrebbe iniziare, a guerra terminata, una stagione di riforme sociali.Dal punto di vista economico, l’esportazione del greggio dalle regioni del Kurdistan iracheno, è gentilmente concessa dal governo turco. È una concessione temporanea e strumentale, in quanto la borghesia turca non permetterà mai l’autodeterminazione del Kurdistan. Dal punto di vista politico, l’unità nazionale è sottoposta al costante ricatto degli Stati Uniti, che finanziano, armano e dirigono il governo regionale di Barzani. Ci pare arduo descrivere gli Usa come un paese interessato alla democrazia nel mondo. Come poter giustificare infine, agli occhi delle masse mediorientali, una liberazione nazionale ottenuta con il beneplacito dell’invasore americano?La politica della direzione del Pkk si muove su un piano molto incrinato ed è piena di illusioni pericolose. L’imperialismo Usa e il governo Erdogan scaricheranno i curdi una volta che non saranno più utili ai loro fini. È ingenuo chiedere che “sia necessario che gli Stati Uniti, l’Europa, le Nazioni Unite, facciano pressione perché nessuno più sostenga l’Isis” (Ibid, www.controlacrisi.org). Se mai riusciranno a ridimensionarle e a dividerle l’imperialismo tornerà ad utilizzare le forze integraliste come ha fatto più volte nella storia.L’autodeterminazione del Kurdistan, come la lotta contro l’Isis e le altre forze fondamentaliste, possono essere solo compito delle masse stesse. Nessuna fiducia può essere riposta da parte dei giovani e dei lavoratori nelle borghesie imperialiste e nemmeno in quelle arabe: sono le principali responsabili della barbarie attuale.Oggi più che mai nessuna soluzione può giungere all’interno dei ristretti confini nazionali. Quello di cui oggi c’è bisogno è di una posizione internazionalista, di una seconda rivoluzione araba, dopo quella del 2011, che unifichi il movimento, al di là delle divisioni nazionali, etniche e di religione, su basi di classe per l’abbattimento dei regimi reazionari e del capitalismo. Oggi sembra una prospettiva lontana ed utopica, ma come abbiamo visto tutte le posizioni “realiste” hanno condotto a scenari di reazione e oscurantismo.Solo una Federazione socialista del Medio Oriente può risolvere il problema delle nazionalità oppresse e offrire un futuro di pace, libero dalla barbarie e dalle guerre.Source